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09/19/2025

FERITE CHE NON SI VEDONO: riconoscere e superare l’impatto del trauma

Ambra Durosini

Oggi sappiamo che le esperienze traumatiche non sono rare eccezioni, ma realtà che coinvolgono milioni di persone ogni anno. 

Un trauma può nascere da situazioni prolungate nel tempo, come abusi, trascuratezza e violenza domestica, o contesti di guerra, oppure da eventi improvvisi e sconvolgenti, come un incidente, una catastrofe naturale o un'aggressione. 

Quando il trauma non finisce con l’evento

Quello che molti ignorano, però, è che un trauma non termina quando l’evento finisce: le emozioni, i ricordi e le reazioni legate a quanto accaduto possono continuare a farsi sentire, influenzando la vita quotidiana e il benessere personale. 

Ti è mai capitato di sentirti bloccato, iperallerta o inadeguato senza sapere perché?
Spesso ci si accorge solo dopo, magari di fronte a difficoltà emotive o relazionali, che quel vissuto ha lasciato un segno profondo.

Infatti il trauma lascia un segno che può durare a lungo, spesso per anni o persino decenni. Non si tratta solo di un ricordo, come una vecchia fotografia che ci lega al passato. Il trauma è un’eredità vivente, che si manifesta nel presente attraverso reazioni intense e improvvise a situazioni comuni e apparentemente innocue. Questi “ricordi impliciti” si esprimono nel corpo e nelle emozioni, anche senza che ne siamo pienamente consapevoli: tensione muscolare, battito accelerato, immagini intrusive, sensazioni di paura, rabbia o vergogna. Basta una parola, un odore o un gesto a riattivare la sofferenza, rendendo la vita quotidiana un campo minato. Anche le attività più semplici – svegliarsi, prepararsi, andare al lavoro – possono diventare fonte di disagio, influenzando il modo in cui viviamo le relazioni, i luoghi e noi stessi. Comprendere questi meccanismi è il primo passo per affrontarli.
Inoltre è importante sapere che, talvolta, ciò che ci fa stare male non è legato a un ricordo preciso o a un evento che possiamo facilmente raccontare. Anzi, molte esperienze traumatiche non si fissano nella memoria come una storia chiara, ma si imprimono nel corpo e nei sensi. Emozioni intense, sensazioni fisiche improvvise, cambiamenti nel respiro o nel battito del cuore, tensioni muscolari o un senso di crollo interiore possono essere tracce del trauma, anche se non ne abbiamo un ricordo consapevole.

 

Questi ricordi “senza parole”, chiamati ricordi impliciti, possono essere riattivati da piccoli stimoli quotidiani – suoni, odori, gesti – che diventano vere e proprie “mine nascoste”. E quando vengono attivati, riportano con forza il corpo e la mente in quello stato di pericolo o impotenza vissuto allora, anche se razionalmente non sappiamo spiegare il perché di quella reazione.

Spesso cercare di collegare queste reazioni a un evento specifico del passato non porta sollievo, anzi: può aumentare il senso di disagio, attivando ancora di più le emozioni e le sensazioni fisiche dolorose. Questo porta molte persone a credere che ci sia qualcosa di sbagliato in loro o nell’ambiente in cui vivono, finendo per colpevolizzarsi. 

Il corpo ricorda ciò che la mente non sa

L’“eredità vivente del trauma” si manifesta così in un’ampia gamma di sintomi e difficoltà, spesso non riconosciuti come legati a esperienze traumatiche.  La terapeuta e autrice Janina Fisher, nel suo libro, ne elenca molti: ipervigilanza, diffidenza, dolore cronico, cefalee, vergogna, senso di non valore, perdita di interesse e scarsa memoria. Eppure, ognuno di questi sintomi rappresenta un modo in cui mente e corpo si sono adattati alla minaccia, al pericolo, all’essere intrappolati, troppo giovani o impotenti. Insomma un tentativo di gestire tutte le emozioni e le reazioni fisiche che ne sono derivate.

Appare così più chiaro perché molti sopravvissuti a un trauma tendono a incolpare sé stessi o l’ambiente. Non trovano sollievo né la sensazione di “ce l’ho fatta”. Corpo ed emozioni reagiscono come se il pericolo fosse ancora presente. Si sentono ancora “là”, ovunque sia “là”.

Come il cervello e il corpo ci aiutano a sopravvivere al trauma

Perché il trauma continua a farsi sentire? Le risposte sono radicate nel nostro cervello e nel nostro corpo.
Di fronte a esperienze orribili, gli esseri umani non sopravvivono grazie a decisioni razionali o pianificazioni consapevoli. Quando ci sentiamo minacciati — troppo piccoli o troppo sopraffatti — non possiamo riflettere con lucidità. Sopravviviamo perché il nostro corpo è programmato per farlo e perché il cervello, in situazioni estreme, mette la sopravvivenza al primo posto. Appena percepisce un pericolo, attiva in automatico risposte di emergenza.

Alcune aree del cervello sono specializzate per aiutarci a sopravvivere al pericolo.
Le strutture collegate del sistema limbico sostengono la nostra capacità di provare emozioni, percezioni sensoriali e relazioni, e conservano i ricordi non verbali legati a esperienze traumatiche. Il sistema limbico comprende il talamo (che trasmette le informazioni sensoriali), l’ippocampo (coinvolto nella memoria) e l’amigdala (una sorta di allarme interno). Quando i sensi rilevano un possibile pericolo, il segnale passa al talamo e, in frazioni di secondo, viene valutato dall’amigdala e dalla corteccia prefrontale per capire se si tratta di un’allerta reale o meno.
La corteccia prefrontale dovrebbe esercitare un “potere di veto”: se riconosce lo stimolo come innocuo, l’amigdala non si attiva. Ma se lo considera minaccioso, l’amigdala scatena una risposta allo stress: si attiva il sistema nervoso simpatico, parte la scarica di adrenalina, aumenta il battito cardiaco e la respirazione, mentre si disattivano funzioni non essenziali, tra cui la corteccia prefrontale. In modalità sopravvivenza, non pensiamo: reagiamo. Gridiamo, ci blocchiamo, scappiamo, lottiamo o ci arrendiamo, perdendo consapevolezza e parte della memoria dell’esperienza.
Quando il corpo si prepara all’azione attivando il sistema nervoso simpatico, contemporaneamente il sistema nervoso parasimpatico si attiva per gestire la fine del pericolo e favorire il recupero. Se combattere o scappare non è possibile o utile, il parasimpatico può attivare una strategia di sopravvivenza alternativa: la sottomissione totale o quello che viene chiamato “congelamento” o “finta morte” (Porges, 2011).

Questa risposta è comune nei bambini, così come nelle donne vittime di abusi, nei prigionieri di guerra e negli ostaggi. In situazioni in cui reagire attivamente potrebbe essere pericoloso, corpo e cervello scelgono automaticamente la risposta che offre maggiore protezione. 

Ti sei mai chiesto: “Perché non ho reagito?” La risposta è che non sei stato tu, consapevolmente, a decidere. Il tuo cervello pensante si è spento e, al suo posto, il corpo ha reagito automaticamente, scegliendo la risposta più sicura in quel momento.
Infine, è importante sapere che dopo un evento traumatico l’ippocampo, una piccola struttura del sistema limbico, è responsabile di organizzare l’esperienza non verbale in ordine cronologico, trasformandola in un ricordo che possiamo esprimere a parole. Tuttavia, sotto minaccia, l’ippocampo è una delle aree meno essenziali e viene “spento”. Di conseguenza, durante le esperienze traumatiche più gravi, l’ippocampo non riesce a svolgere correttamente il suo compito, compromettendo la nostra capacità di dare senso a ciò che è accaduto e di archiviarlo “correttamente” nella memoria. Non è raro che si manifesti una memoria confusa dell’accaduto, aprendo la strada a credenze attuali come “sono in pericolo” o “sono difettoso, c’è qualcosa che non va in me”.

Conoscere che, dopo esperienze di pericolo, cervello e corpo diventano più sensibili a segnali che indicano una possibile minaccia (trigger) è estremamente importante e può aiutare a dare senso alle proprie azioni e reazioni. Sebbene non si sia responsabili degli eventi traumatici subiti, ci si trova comunque a dover affrontare le sfide per elaborare e superare tali esperienze.
In questo percorso di cura, la psicoterapia negli ultimi trent’anni ha ampliato le proprie prospettive, superando l’idea che il trauma potesse essere elaborato solo attraverso la narrazione e la rivelazione di segreti. Le attuali visioni integrano l’importanza della conoscenza, che aiuta a comprendere le reazioni intense e disorientanti vissute dalle persone, e propongono un lavoro che coinvolge anche il corpo e il sistema nervoso, come nelle psicoterapie basate su EMDR, Teoria Polivagale, Sensomotoria  e sulla psicoterapia integrata — un approccio che combina diverse tecniche e modelli teorici per creare un percorso personalizzato, adattato alle esigenze specifiche del paziente, con l’obiettivo di affrontare la problematica presentata. 

 

Bibliografia:

Janina Fisher, Trasformare l’eredità del trauma, Mimesis edizioni
Bessel van der Kolk, Il Corpo Accusa Il Colpo, Raffaello Cortina Editore
Stephen Porges, La teoria Polivagale, Giovanni Fioriti Editore.


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